lunedì 3 dicembre 2012

Rocky Mountain marathon Riva del Garda 2011

di Alberto Adilo Di Lorenzo

La prima foto la riservo al "ghigno". Il "ghigno" è il sorriso che si stampa sul volto quando la missione è compiuta, quando gli ultimi metri ormai non potranno piu' compromettere l'impresa. Qui la felicità prende possesso dell'anima. E' fantastico. Dopo quasi otto ore di fatica questa gioia ripaga di tutto. E rimangono solo le cose belle.







Il Bike Festival affascina certo, ma per me che sogno di fare centodieci chilometri di montagne non è vissuto senza pensieri. Di tanto in tanto irrompono le angosce della maratona del giorno successivo. Stringono il cuore fino a togliere il respiro, fino a portarti a dormire. La notte è insonne, la sveglia non serve. Una maratona che oltre ai chilometri ha tremilacinquecentouno metri di ascesa. Un’altimetria senza pietà. E’ la prima volta, l’emozione aggredisce il cervello. Sensazioni uniche, sono qui per questo.



Non so cosa potrà succedere al mio fisico durante questa prova estrema. Sono qui per continuare a imparare a conoscermi. Nei due giorni precedenti, mi sono riempito di carboidrati. Patate e farro principalmente. Frutta e sali minerali. Appena sveglio comincio a mangiare, sono le cinque. Pane marmellata e due crostatine del “Granaio” portate da casa. Un caffe e tanta acqua, poi qualche gel energetico sino al via. Partiro’ alle 8.06 puntuale, ma vicino al tempo della chiusura del cancello della ronda estrema. Griglia“F”, terribile.



Riva del Garda è un paesino sul lago, è meraviglioso. La parte antica regala immagini uniche. Restaurato dove serve e in modo impeccabile contribuisce a digerire l’angoscia dello sparo.





Durante la prima ora “becco” quattro intoppi, il ritardo si accumula. L’immagine del cancello che si chiude davanti a me è frustrante, ma mantengo il ritmo, voglio avere fiducia. Il percorso è bellissimo. Comunque mi rimarrà qualche cosa di grande. Rinuncio a tutto il superfluo, come qualche secondo di riposo ai ristori. Mi limito al necessario, prendo e scappo. La prima salita infinita termina, è la prima conquista. Ogni conquista genera una forza che aiuta nei momenti di dolore.






Comincia la discesa, furiosa e lunghissima. Il primo tratto è bagnato e viscido, cadono in molti. Poi quindici chilometri in pochi respiri. Gli aduttori urlano, non sono abituati.  E'  tutto fuorchè riposante,  velocissima. Le performances su questi pendii affaticano ancora di piu’, fantastico. il diverertimento non fa rendere conto  della spesa di energie e dello strapazzamento del fisico, ma non ci si puo’sempre controllare. La bici poi qui  funziona benissimo, una leggera 130 -  130,  quella giusta per aumentare il gusto. Ma tutto questo significa che è  appena terminata la salita precedente e ci si ritrova a salire.



Continuo a regolare il ritmo, una buona pressione sui pedali senza mai forzare. Primi cinquanta chilometri ben controllati, ma comincia quest’altra salita. I primi cinque chilometri senza pietà, poi qualche discesella illude di potere riposare. Anche queste infatti sono tecniche e invitano a buttarsi. Mi butto sempre, non spreco nulla. Preferisco “riposare” in salita. Ai settanta chilometri la stanchezza morde le gambe  diventa crudele. Il pensiero del cancello che si chiude non è piu’ un’angoscia ma una liberazione. Se non ci arrivero’ non dipenderà né dalla mia volontà né dalla mia prestazione.

Poi incontro Stefano. Stefano De Marchi. Un particolare che farà la differenza tra ottanta e centodieci.



Lo conosco solo attraverso la rete, ci unisce la passione per quello che stiamo facendo. Le parole tra noi saranno determinanti e non solo le parole. Arriviamo all’ultimo ristoro insieme. L’ultimo cancello è vicino, ma il tempo quasi finito. Come il corpo.

Sono rassegnato, Simone mi incoraggia. Riparto come uno sparo, il tratto è in discesa, riesco a spingere, pochi chilometri e vedo il cancello. E’ aperto, spingo ancora di piu’. Lo passo e si chiude.
Chino la testa sul manubrio e mi commuovo. So che da li in poi sarà un’impresa disperata e meravigliosa. Solo io senza tempo.
Ma non ho piu’ acqua. Tutto finito. Impossibile, game over. Ma c’è Stefano. Arriva e mi offre la sua riserva. E’ un salvagente d’oro, gli stringo la mano e il cuore.



Guardo in alto, ci sono quindici chilometri di salita senza soste, senza respiro. Adesso valgono il triplo. Ma questa è la fatica che mi piace: esagerata e tranquilla. Prendo il passo.
Nessuno dietro di me, ma un buon passo. Me lo godo e godo davvero. Adesso si.
Ogni pedalata è dolore, ma ci si abitua perché è anche mezzo metro in meno all’arrivo. Cosi’ se ne possono fare milioni.
Gli ultimi chilometri sono un single-track in salita, potrebbe tagliare le gambe se fosse solo una questione fisica. Adesso è una questione soprattutto mentale, adesso diverte.



L’ultimo ristoro è una festa. Mi hanno aspettato e c’è ogni ben di dio. Questo banchetto me lo godo, come la simpatia e l’ospitalità dei ragazzi dello staff. Poi sarà solo discesa. Apprendo che c’è un gruppo davanti a me di una decina di minuti, una certa idea di provarci mi prende. Senza assilli.

Saluto e mi butto. Non so da dove, ma recupero un po di forza. Anche questo pendio è fantastico, non invita né al risparmio, né alla prudenza. Alla fine i miei freni qui si consumeranno poco. Credo di avere toccato velocità mai raggiunte su sterrato. Riprendo quel gruppo, una decina. Manca davvero un soffio. I crampi mi raggiungono come una fucilata, ma penso a Denis, me ne frego. Gestisco le fitte nell’ultimo tratto della discesa. Raggiungo l’asfalto e Arco di Trento, cinque chilometri all’arrivo. E’ fatta, cento chilometri sul display e tremilacinquecento metri di dislivello davvero. Mi commuovo ancora e questa volta essere soli è una fortuna.



Ma non è finita. L’ultimo tedesco mi si accoda e si mette alla ruota. Che cosa vuole? Aumento un po’ e rimane attaccato. Ce l’ha con me? Perché non mi supera? Aumento ancora. Sempre li’. Vuole la bagarre adesso? Si la vuole. Adesso? Si adesso. Io non sono un agonista, e tutto quello che c’era in me è sulle montagne. Non ce la faccio piu’, mancano tre chilometri e un tedesco. Mi supera, mi provoca, mi riempie di forza sconosciuta. Mi accodo io e tengo. Tira fino alla sua fine, ma io tengo. Quaranta, trentanove, trentacinque, trenta. Supero senza guardare e non lo vedro’ piu’. Mi cercherà dopo l’arrivo al lavaggio bici per stringermi la mano insaponata, non capisco subito perché.
Poi il traguardo e la felicità.

Il viaggio di ritorno è un continuo riapparire di immagini che non mi molleranno piu’.

Qui la traccia:



Rocky Mountain Marathon 2011 Ronda estrema


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